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fine ho lasciato la macchina tra i platani che costeggiavano il Tevere, sono andato ad aspettare
Maria nella piazzetta che lei mi aveva descritto al telefono. Non era una vera piazzetta ma una
specie di piccolo slargo selciato, con un tempietto bianco su un rialzo a gradoni, affacciato sul
traffico in continuo scorrimento lungo il fiume; al di là del tempietto c'erano le vecchie case di
Trastevere. Guardavo a destra e a sinistra pieno d'ansia; cercavo di immaginarmi da che parte lei
sarebbe arrivata. Non capivo perchè non mi avesse dato appuntamento sotto casa sua; perchè
c'era questo margine d'ombra intorno ai suoi movimenti.
Poi l'ho vista arrivare da una stradetta laterale, con il suo passo lungo ben equilibrato, i capelli
che le brillavano alla luce dei lampioni, tra gli sguardi appiccicosi di alcuni ragazzotti fermi vicino a
una macchina. Le sono andato incontro, ci siamo dati la mano; siamo rimasti in bilico un attimo e
mi sono allungato a baciarla su una guancia e sull'altra. Quasi non riuscivo a credere che fosse
venuta davvero: la guardavo senza sapere da dove cominciare.
Lei aveva un'aria nervosa e incerta, con le mani nelle tasche del suo cappottino corto. Mi ha
chiesto: «Dove andiamo?».
«Dove vuoi tu», ho detto io; e mi rendevo conto che avrei dovuto proporle subito un posto
senza tergiversare ma non sapevo quale, ero troppo frastornato ad averla davanti.
Lei ha detto: «No, decidi tu»: come se non avesse nessuna voglia di assumersi responsabilità
che erano mie.
Si guardava intorno, annusava l'aria, senza traccia della confidenza amichevole di quando
l'avevo incontrata per strada, o del calore fisico della notte fuori dalla festa. Così le ho detto:
«Andiamo di qua», l'ho guidata del tutto a caso verso un vicolo stretto. Avrei voluto sciogliere a
parole la sua tensione e rendere la comunicazione più facile, ma non riuscivo a trovare il tono né
gli argomenti giusti; mi sentivo rigido e innaturale come un baccalà.
Le ho descritto la piazza a imbuto sotto casa di Bedreghin; lei ha detto: «Terribile», ma
sorrideva appena.
Le ho descritto l'appartamento di Bedreghin, Bedreghin nell'appartamento; lei camminava
nervosa senza guardare da nessuna parte, non capivo neanche se mi ascoltava. Avevo sognato
per due settimane di poterla rivedere, e adesso che c'ero riuscito la situazione mi stava scivolando
tra le mani; continuavo a cercare con gli occhi l'insegna di un ristorante, come se fosse una
questione di vita o di morte.
Finalmente ne ho visto uno, ma prima che potessi proporglielo Maria ha detto: «E una
trappola per turisti».
Le ho detto: «Lo so, lo so, ne troviamo un altro».
Però lei era sempre più tesa e io vicino al panico; mi sentivo goffo e presuntuoso, privo delle
qualità minime per invitare a cena una ragazza così. Mi sembrava di dovermi fare avanti,
dimostrarle qualcosa di me, e avevo solo parole a disposizione, e un romanzo non ancora finito e
lontanissimo dall'essere pubblicato; non riuscivo a trovare nessuno strumento suggestivo da
suonare per le sue orecchie. Le camminavo di fianco sul selciato irregolare, bloccato in ogni gesto
che facevo e in ogni piccola frase che dicevo, senza il coraggio di prenderla sottobraccio né la
disinvoltura di intrattenerla.
Poi siamo arrivati in una piazza con una fontana illuminata e una chiesa dalla facciata dipinta,
e un ristorante. L'ho indicato a Maria; lei ha detto: «E antipatico, e troppo caro». Ma ero disperato,
avevo solo voglia di raggiungere un riparo di qualche genere; e mi sono immaginato Polidori che
mi osservava a distanza con una traccia di delusione nello sguardo.
Le ho detto: «Non importa, dai, va benissimo»; l'ho portata verso l'ingresso. Non ho quasi
visto com'era il ristorante dentro, ma per fortuna c'era posto e le luci erano basse, ci siamo seduti
a un tavolo d'angolo. Maria ha detto che non aveva fame, voleva solo una minestra di verdura. Ne
ho ordinate due, e una bottiglia del vino che Polidori aveva scelto alla cena con la paracadutista.
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